Dal film: Caterina và in città, considerazioni psicologiche sull’adolescenza
Il disagio giovanile è
talvolta il sintomo di un più complesso disagio familiare che non trova modalità di definizione e espressione.
Caterina va in città è un film italiano del 2003 diretto da Paolo Virzì.
Racconta le vicende di Caterina e della sua famiglia che, in seguito alla decisione del padre, decide di trasferirsi dalla provincia a Roma città.
L'analisi psicologica della pellicola è particolarmente interessante poiché evidenzia come il disagio giovanile rappresenti talvolta il sintomo di un più complesso disagio familiare che non riesce a trovare modalità di definizione e di espressione.
Il papà della ragazza pare infatti incarnare una figura frustrata e ripiegata su se stessa, alla ricerca di un narcisistico riconoscimento personale; egli lascia la provincia per allontanarsi da un contesto insoddisfacente ma in realtà la sua è una fuga da parti di sé che sente inadeguate ma che non riconosce in modo consapevole. Questo suo profondo disagio non riconosciuto viene espulso nel nucleo familiare che ne paga le conseguenze emotive. Per Caterina il peso sulle spalle diventa sempre più grande: lo sfruttamento intrusivo del padre per accedere alle conoscenze altolocate dei suoi compagni di scuola, la sua crisi di nervi in tv, le scenate rabbiose in casa, le esplosioni di rabbia repressa della mamma che pare anch'essa non reggere più. La ragazza rimane sola difronte a tutto questo dolore senza comprenderne il senso e ancor più rimane sola nelle sue difficoltà personali; l'inserimento scolastico infatti si rivela disastroso: i compagni sono per lo più personaggi sofferenti che, attraverso la trasgressività e la ricerca compulsiva di diversivi, cercano di evacuare il loro malessere ma anche anche di scuotere un mondo di adulti confuso, reduce dai recenti cambiamenti sessantottini, perso o colluso nei propri miti ideologici; Caterina cerca di adeguarsi a questo contesto che non comprende, scimmiottando i coetanei in modo per niente convinto ma ne esce sempre malconcia. Evidente è il senso di spaesamento e confusione in cui il film catapulta lo spettatore, quasi fosse lui stesso nei panni della ragazza.
In questo pesante clima emotivo Caterina non può che esplodere e, dopo una provocazione di alcune compagne a scuola, reagisce venendo alle mani e scappando da scuola.
Il clima della pellicola pare tuttavia prendere una svolta quando la ragazza viene ospitata da un vicino, un adolescente australiano che le mostra dalle finestre, poste difronte a quelle di Caterina, cosa accade a casa sua. I due osservano la scena di un padre agitato, rabbioso, che gesticola attraversando tutte le stanze, una madre in ansia, timorosa, repressa, che viene consolata da un uomo, un vicino, poiché anch'essa non ha chi la consoli, i Carabinieri che sono stati allertati dalla famiglia dopo la fuga della ragazza.
Perché questa scena rappresenta un punto di svolta? Caterina osservando la scena, riesce a mettere una distanza tra lei e la sua famiglia, attraverso l'aiuto di una figura terza e neutrale. Questo è l'importante contributo di questo aiuto che proviene dall'esterno: il poter vedere con altri occhi qualcosa che non si riusciva a scorgere. Scrive Eshkol Nevo nel suo libro Tre piani, riferendosi all'impossibilità di accorgersi delle macchie sulla propria camicia: "Poteva esserci una macchia che non avevo notato? Vivendo da soli può capitare. Nessuno ti salva dalle tue macchie". Accade proprio così, da soli è difficile vedere le macchie sulla nostra camicia: non abbiamo abbastanza campo visivo! Dalla finestra Caterina non è più nella scena ma è fuori e questa sembra lentamente acquisire un senso, un senso che apre una breccia nella confusione...
Il film evidenzia quanto siano complesse ed intrecciate le vicende umane e come il dipanarsi di questa complessità abbia a che vedere con la costruzione di un apparato per pensare, come postulava Bion (1972): un apparato psichico che possa contenere, comprendere e dare un senso a ciò che proviamo. Solo in questo modo sarà possibile comprendere e sopportare la sofferenza. Il contenitore psichico per pensare è però il frutto di una costruzione che avviene sempre all'interno di una relazione, una relazione il più possibile sana che abbia a cuore e che sia genuinamente interessata al benessere della persona. E in cui almeno uno dei due sia più consapevole e risolto dell'altro.
Dr.ssa Silvia Fenocchio
Bibliografia:
Bion, Wilfred R., Apprendere dall'esperienza. Roma: Armando Editore, 1972