Dopo il lockdown torneremo alla "normalità"? 

12.06.2020

Riusciremo ad uscire dalla capanna per tornare alla "normalità"? Sì, se sapremo fare amicizia con le nostre fragilità.

Siamo ormai nella "Fase 2" inoltrata dopo il lungo periodo di lockdown. I messaggi dai media e dal mondo economico e politico invocano il ritorno alla normalità. Tuttavia non tutte le persone sembrano rispondere a questo invito: dopo i primi giorni di euforia succeduti alla Quarantena, i supermercati appaiono più vuoti, c'è meno gente in giro, anche nei locali ormai aperti al pubblico; c'è chi indugia (pur avendone la possibilità) a tornare al lavoro di persona e sceglie il lavoro a distanza, chi discute sul fatto che non vuole andare in vacanza, si parla del fenomeno della "sindrome della capanna": del bisogno cioè di rimanere a casa al sicuro, protetti.

Perché questa reazione dopo la tanto agognata libertà?

Le ipotesi sono molteplici e concomitanti: i fenomeni umani sono fenomeni complessi.

Tra queste tuttavia, vorrei analizzarne una in particolare e cioè l'influenza del "trauma", del "perturbante" nella psiche, dal punto di vista psicoanalitico.

Il Coronoavirus si è configurato a tutti gli effetti come un trauma collettivo, che ci ha messo improvvisamente in contatto con una dura verità: siamo esseri limitati, fragili, soggetti ai potenti fenomeni della Natura.

In un batter d'ali tutte le nostre sicurezze sono saltate e ci siamo sentiti nudi, piccoli, fragili e tremanti dinnanzi al "Potente Virus".

Freud parla del trauma come qualcosa di perturbante, di non domestico, di non familiare (Unheimlich) ma cosa in particolare non ci era familiare? Quale fantasma si celava dietro al virus?

Se parliamo di non familiare significa che esiste anche qualcosa di familiare, di domestico, di conosciuto: qual'era questa realtà familiare prima del Coronavirus?

Ciò che è familiare è ciò che ci dà sicurezza, che ci protegge e nel tempo abbiamo costruito tanti dispositivi per proteggerci: la tecnologia, le istituzioni sanitarie, le scienze mediche e biologiche, lo Stato stesso, i sussidi, il denaro, la ricchezza.

Tutti questi dispositivi se da un lato ci hanno consentito di vivere in modo più sicuro e sereno (concorrendo a fronteggiare il virus stesso), dall'altro hanno contribuito ad auto-illuderci che gli aspetti scomodi dell'esistenza non avessero posto nella nostra mente: la malattia, la vecchiaia, la fragilità, la sofferenza sembravano essere elemento di scarto, rifiuto, che in un mondo efficientemente predisposto non potesse essere pensato.

A titolo di esempio, un mondo così costruito prevede che il malato si ritiri dalla quotidianità e finisca negli ospedali, lontano dagli sguardi pubblici, confinato. L'anziano anch'esso, non potendo più far parte dell'efficiente mondo produttivo, si confina o viene confinato nelle Case di cura, lontano dalla vita quotidiana che nel frattempo procede ignara e distante.

Ma che cosa in ultima analisi viene allontanato? Che cosa è così perturbante?

Freud afferma che il perturbante è, in ultima analisi, lo spettro della morte.

E utilizzo questo termine perché è questo il termine esatto: un termine che spesso nella vita quotidiana cerchiamo di camuffare con parole meno scomode: "il fine vita", "l'ultimo saluto", "il decesso" (termine molto asettico), "la scomparsa", tuttavia di questo si tratta: siamo esseri finiti, con una scadenza, limitati. Prima del Coronavirus forse, non la pensavamo così: l'illusione era di essere invincibili, onnipotenti.

Ora, nella "Fase 2", l'imperativo sembra essere tornare alla normalità.  Ma di quale normalità parliamo? Certamente non potremo più tornare alla normalità precedente dopo questa esperienza: siamo diversi, siamo cambiati: l'illusione ormai non funziona più: abbiamo provato sulla nostra pelle che non siamo onnipotenti e non possiamo godere della vita illimitatamente (Recalcati): era la posizione di partenza che non era reale! Era pura illusione! Ed il disagio lo evidenzia: nel post-lockdown il malessere psichico sembra emergere, insieme a diffusi fenomeni depressivi: i problemi che prima venivano contenuti dall'illusione si sono "slatentizzati", come a dire: non possiamo più far finta di niente! Abbiamo conosciuto l'esperienza della morte da vicino.

Eppure, nonostante la mentalità comune consideri la morte un'esperienza minacciosa e da allontanare, per la psicoanalisi il prendere contatto con il limite, con la finitezza dell'umano ha un grande valore.

Perchè?

Perchè è nella consapevolezza dell'essere limitati che improvvisamente sentiamo compassione verso noi stessi: proviamo pena per essere così piccoli, fragili ed è proprio in questo spazio così delicato che nasce l'empatia: verso noi stessi e gli altri: è nella fragilità che abbiamo sentito di essere tutti sulla stessa barca, che abbiamo cantato sui balconi rassicurandoci che sarebbe andato tutto bene! La fragilità è quella ferita attraverso la quale possiamo unire la vita alla morte: è questa la "Nuova normalità": la vita non è solo puro godimento, c'è anche altro, c'è anche la morte: se sapremo tenere a mente questi due opposti Vita e Morte il nostro sguardo si amplierà: sarà uno sguardo più compassionevole verso il mondo: uno sguardo che saprà includere la cura e l'amore verso noi stessi e, di conseguenza, verso l'altro.

Dr.ssa Silvia Fenocchio